sabato 15 giugno 2024
26.09.2013 - G. Picchianti

La Storia: quando l'attesa di un treno diventa un momento che vorresti non finisse mai.

Il regionale delle 16,57 ancora non era giunto in stazione. Sulla banchina diversi impiegati con la ventriquattrore, un anziano con alcune piantine per l'orto e poi noi, studenti del polo universitario: alcuni con in mano già i manuali di studio, altri con le cuffiette, si lasciavano andare al mondo della musica e infine altri ragazzi, come me, che scambiavamo le ultime parole con i propri compagni di corso, prima di tornare a casa.

 Molte volte i momenti preziosi della vita accadono nella corsa di secondi, istanti che fuggono anche al batter di ciglio. Infatti così accadde.

Mentre l'altoparlante annunciava l'arrivo imminente del treno, dalla sala d'attesa una giovane coppia con due bimbi si avvicinava a me, aspettando l'arrivo del convoglio. Di primo acchitto non ho dato loro la giusta attenzione che meritavano, poiché, sopratutto noi giovani, più degli adulti, siamo imbevuti nella “società delle corse”, metti perché siamo cresciuti così, metti perché abbiamo una forza maggiore per sopportare i ritmi frenetici della vita, non so... La giovane mamma aveva tra le braccia uno dei due bambini, il più grande probabilmente, mentre il second, stava con cappellino e calzette nel passeggino, che il padre spingeva. Il primo convoglio che giunse nella piccola stazione di Porto Maurizio fu quello diretto a Savona. Il tempo di far salire e scendere i passeggieri, le carrozze ripresero la loro corsa. Non so se fu per una qualche strana sensazione o per quel momento di silenzio, che intercorre tra il fischio dei freni e la ripresa della corsa del treno, ma mi accorsi che la giovane coppia questa volta si era spostata un po' più a sinistra, tra me ed una mia amica. Il papà aveva preso a spingere la carrozzina con il bambino più grande, correndo dietro il convoglio che lasciava la stazione. La sua corsa, tuttavia, era nervosa. Tornati vicino alla mamma e al fratellino, riuscii a captare una cosa, che, sin da subito, mi apparve strana. I bambini normalmente giocano, gridano e talvolta piangono. Loro no. Tutti e due erano molto silenziosi. Con un briciolo di pudore, ho provato a guardare prima il più piccolo e poi il fratellino: di entrambi, la prima cosa che ho notato, è stato il loro splendido sorriso, che rivolgevano ai rispettivi mamma e papà e poi anche a me. In particolare quello del più piccolo, che era nel passeggino, nascondeva un grande tesoro, che non si può rubare e che non può essere quantificato e che difficilmente, oggi come oggi, troviamo nella nostra frenetica vita quotidiana: l'essere umani. Spontaneamente, la prima cosa che mi è venuta da fare è stata quella di rispondere loro con un cenno di sorriso, attraverso la mia solita timidezza. La mamma guardandomi, senza dire alcuna parola, sorrise anch'essa per poi tornare a dare tutta la sua attenzione al pargolo che aveva tra le braccia.

Il sorriso, molte volte, nasconde anche un lato triste (come insegna la maschera di Pierrot), che, in questo frangente, venne alla luce subito: questi due fratellini riuscivano a muovere solo la bocca e poco, pochissimo gli occhi. E quando lo facevano, dimostravano però solo e sempre sorrisi e felicità. Provai immediatamente rabbia nei confronti non so se della sorte o di un qualcosa di trascendente senza sembianze e senza nome. L'unica cosa che mi passò per la testa furono alcune terzine del XXXIII canto dell'Inferno di Dante, quello che tratta del conte Ugolino della Gherardesca: “Queta'mi allor per non farli più tristi; / lo dì e l'altro stemmo tutti muti; / ahi dura terra, perché non t'apristi?”.

Dopo che questo turbinio di rabbia e di pensieri terminò di fare il suo corso e vedendo arrivare il treno e la coppia prepararsi a salire, io mi sono sentito una nullità. Si, esatto, una nullità di fronte a tanta forza di affrontare la vita, da parte di questi due giovani genitori, che ai figli hanno regalato, anche in un contesto abbastanza freddo (come può essere l'attesa di un convoglio ferroviario), la bellezza di sorridere, di farli sorridere e di dar loro la forza di dimostrare a noi -strani esseri perfetti o quasi-, che chi combatte tutti i giorni una malattia, un'ingiustizia e tutte le difficoltà che si collegano, ha un dono che noi non potremo mai avere, quello della bellezza del sorriso e dell'essere davvero umani.

Stiamo creando un mondo capitanato dalle parole, dalle piccole guerre che noi stessi creiamo e per le quali poi ci lamentiamo e le uniche battaglie che perseguiamo sono quelle che ci fanno divenire felici o quelle per nasconderci dai veri problemi. Abbiamo dimenticato che forse con più solidarietà, che forse con più spirito di voler affrontare le sfide e i momenti tristi come anche quelli felici, insieme, che forse se ci fidassimo maggiormente di chi prova a darci la mano o il cuore, forse così vivremmo giornate più umane.

L'amica che era accanto a me, pochi minuti fa, mentre buttavo giù queste righe, mi manda un sms per sapere se anche io mi fossi accorto di quei due bimbi. Lei, tornando a casa -mi ha scritto- si è emozionata, perché ha provato tenerezza e le si è creato un nodo in gola mentre guardava il papà e la mamma che coccolavano i loro figli. Le vorrò rispondere e le parole non saranno facili da trovare. Una cosa però la so: che da questo pomeriggio ho anche io un nodo in gola difficile da sciogliere, mentre quei genitori, con tutte le difficoltà, chissà quanti nodi in gola hanno dovuto digerire da soli e quanti problemi, sempre da soli, hanno dovuto risolvere. Nell'Italia che vorrei e per la quale mi impegno penso che non sia solo necessario un intervento più coraggioso ed incisivo dello Stato, ma anche che sia condizione essenziale per riscattarci, la solidarietà umana...

 Per alcuni (sinceramente spero non tanti) lettori, queste parole potranno essere l'ennesimo manifesto di una retorica sdolcinata, mielosa e qualunquista: liberi di pensarlo. Come io di impegnarmi, invece, affinché questo nostro mondo divenga più accogliente per chi ha il dono di essere davvero umano.

 

 


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