La vita di uno sciatore, si sa, è una continua corsa contro il tempo, una sfida al cronometro e ai propri limiti. Ma per Matteo Franzoso, la sua ultima corsa si è trasformata in una tragica e inesorabile attesa. Un’attesa durata giorni, in un letto d’ospedale a Santiago del Cile, dopo che una caduta in allenamento gli aveva inflitto un colpo fatale. Il destino ha voluto che il suo cuore smettesse di battere appena un giorno prima di compiere 26 anni, un’età che per un atleta professionista è ancora sinonimo di grandi sogni e promesse. L’annuncio della sua morte, diffuso dalla Federazione Italiana Sport Invernali, ha messo un punto finale a una storia di passione e coraggio che meritava un finale ben diverso. La notizia ha scosso il mondo dello sport e ha gettato un’ombra di profonda tristezza sulle montagne che erano la sua casa.

Il sogno e la realtà
Originario di Genova, Matteo aveva intrapreso la sua avventura nello sci fin da giovanissimo, spingendo la sua famiglia a trasferirsi a Sestriere, l’epicentro dello sci agonistico italiano, per coltivare la sua passione. Da discesista, si confrontava quotidianamente con la velocità, il rischio e la precisione millimetrica che solo la discesa libera richiede. In Cile, si trovava proprio per fare ciò che amava, per allenarsi in vista della stagione imminente su una pista veloce e collaudata. È qui che il suo sogno si è scontrato con la cruda realtà. Una caduta, la perdita di controllo degli sci e un impatto devastante che ha causato un grave trauma cranico. Le sue condizioni sono apparse subito disperate, portando i medici a indurlo in coma farmacologico. Ma, nonostante i tentativi disperati dei sanitari e l’arrivo dei familiari, chiamati in Cile per un ultimo saluto, non c’è stato nulla da fare.
La tecnologia e la sicurezza: un paradosso amaro
La tragedia di Matteo Franzoso riapre una ferita dolorosa e solleva una domanda cruciale che risuona in tutto il mondo sportivo: come può accadere ancora una cosa del genere? Oggi l’attrezzatura sportiva ha raggiunto livelli tecnologici impensabili fino a pochi anni fa. Sci, caschi, tute, tutto è progettato per garantire il massimo della performance e, teoricamente, della sicurezza. Eppure, come sottolineato dal presidente del Consiglio regionale ligure, Stefano Balleari, non sempre lo sviluppo tecnologico va di pari passo con la messa in sicurezza degli impianti e delle persone. È un paradosso amaro: si migliora la velocità degli atleti, ma non si garantisce che le piste siano immuni dai pericoli. Si investe nella performance, ma non sempre nella prevenzione, lasciando i ragazzi in balia di un rischio che, in alcuni casi, si rivela fatale.
Il monito che la neve non deve dimenticare
La morte di Matteo non è, purtroppo, un caso isolato. Il ricordo della giovane sciatrice Matilde Lorenzi, scomparsa meno di un anno prima, rende questo evento un monito ancora più forte e doloroso. La neve, che dovrebbe essere un palcoscenico di gioia e competizione, rischia di trasformarsi in un luogo di lutto e cordoglio. La passione, la dedizione e il sacrificio di questi giovani atleti non possono essere spazzati via da un sistema che non riesce a proteggerli adeguatamente. La loro vita, spezzata troppo presto, deve diventare un catalizzatore per il cambiamento. Le federazioni, gli addetti ai lavori e tutti coloro che hanno a cuore lo sport devono fare un esame di coscienza e impegnarsi affinché tragedie come questa non si ripetano mai più. La morte di Matteo e di Matilde non può e non deve essere vana